Donne in viaggio o in esilio

Ottobre 20, 2004 in Arte da Sonia Gallesio

Di fatto molti capi di stato delle democrazie occidentali si siedono, mangiano, stringono mani e fanno affari con gente che non ha problemi a lapidare una donna perché guida una macchina, va per strada senza il velo o si macchia di ‘crimini’ anche minori […]. In fondo questi sono problemi loro, non nostri…

[Francesco Bonami in catalogo]

Al posto di penetrare territori inesplorati con un mandato da conquistatori, gli artisti oggi sono sempre più preoccupati di fornire il giusto equilibrio tra la rappresentazione del mondo come lo conosciamo e un’alternativa migliore…

[Dan Cameron, da Questioni di confine, tratto da Contemporanee, di Emanuela De Cecco e Gianni Romano, Postemedia Srl, 2002 ]

[…] L’intervento di Neshat viola gli spazi sacri e l’iconografia dei canoni islamici, ne decostruisce il metalinguaggio mitologico per poi riposizionarlo all’interno di un sistema semiologico arricchito di nuovi significati e reso, dunque, parte della storia. [Shoja Azari, da Uno sguardo dietro le quinte, tratto da Contemporanee, di Emanuela De Cecco e Gianni Romano, Postemedia Srl, 2002]

Non Toccare la Donna Bianca 2.1Palestinese di origini, Mona Hatoum (Beirut, Libano, 1952) è segnata da un duplice esilio. Vissuto in prima persona, il confino la rende più ricettiva nei confronti di tematiche quali il potere, la paura, la costrizione e la reclusione, i sistemi di controllo sociale, le separazioni forzate. Profondamente attenta alle vicende politiche e sociali contemporanee, nel 1982 risponde ad un massacro di oltre 1.000 rifugiati con la memorabile performance The Negotiating Table in cui rimane distesa su un tavolo per tre ore, bendata, avvolta da una pellicola plastificata e ricoperta di interiora insanguinate di animali.

L’artista utilizza i più diversi mezzi espressivi (performances, video, installazioni e fotografia) tradendo l’influsso dell’arte minimalista e del concettualismo degli anni ’60, maggiormente di scultori del dopoguerra come Piero Manzoni, della cui estetica fornisce una personale rilettura. Espone al Centre Pompidou di Parigi, alla Biennale di Venezia, al Museum of Contemporary Art di Chicago, al New Museum di New York, alla Tate Gallery di Londra, alla Kunsthalle di Basilea, al Castello di Rivoli.

Le sue sono installazioni destabilizzanti, che implicano una certa interazione con il pubblico ed emanano un’energia ostile: “attraverso suggestioni tattili di discontinuità, sorpresa e persino pericolo, i suoi pezzi continuano a suggerire dinamiche performative, coinvolgendo lo spettatore in un’intensa relazione (spesso parzialmente nascosta) con l’oggetto costruito…” (Dan Cameron, da Questioni di confine, tratto da Contemporanee, Postemedia Srl, 2002).

Creando ambienti postminimali, dal forte impatto fisico iniziale – a cui ci si augura seguano una serie di associazioni e un’analisi più approfondita dei significati intrinseci –, Hatoum propone scenari allarmanti, saturi di pericoli, che rimandano alla vulnerabilità del corpo ma anche della moralità di ogni individuo. Così accade in Home (1999, non presente alla Sandretto), che dimostra come minacce insospettabili possano annidarsi anche nei luoghi più familiari, in virtù dell’inserimento di fattori disturbanti all’interno di strutture rigorose.

Se Mona trasforma gli spazi della quotidianità in luoghi non vivibili, parallelamente estrania una quantità sorprendente di oggetti rendendoli deterrenti (in mostra Doormat II, 2000-1, zerbino di aghi in acciaio inox). In questo modo un tritaverdure ingrandito a dismisura – ispirato dal racconto Nella colonia penale di Franz Kafka – può divenire uno strumento di tortura, così come una sedia a rotelle convertirsi in una macchina temibile, quasi infernale, grazie alla sostituzione delle maniglie con coltelli affilati.

Non Toccare la Donna Bianca 2.2Come per Hatoum, anche per Shirin Neshat (Qazvin, Iran, 1957) la vicenda personale ed artistica è influenzata dall’esilio, seppur volontario. Nella sua opera, difatti, si registra un senso di estraniazione, lontananza, costrizione.

Per il suo percorso sono determinanti i recenti e radicali cambiamenti sociali, politici e culturali della comunità islamica, trasformazioni che la segnano profondamente in occasione del suo rientro in Iran nel 1990, dopo numerosi anni di assenza. Si tratta di accadimenti che l’artista deve dapprima metabolizzare confrontandosi con il suo senso di perdita, smarrimento e nostalgia. Del resto, la straordinarietà del suo lavoro, citando De Cecco e Romano in Contemporanee, deriva proprio dal “profondo bisogno di comprensione e riconciliazione con le recenti vicende sociologiche e storiche” (Postemedia Srl, 2002).

Tra le più note presenze femminili a livello internazionale provenienti dal mondo arabo, l’autrice si avvale di immagini evocative, fortemente suggestive, e di un linguaggio metaforico e poetico. Per evidenziare le gravi incoerenze della società iraniana, contrappone la figura dell’uomo a quella della donna, il bianco al nero, il silenzio alla melodia, la modernità alla tradizione, la libertà al fondamentalismo. Dai suoi lavori affiorano l’incontro tra culture opposte, il tema dell’individualità e dell’identità (femminile in primis), un’indagine sull’organizzazione patriarcale, il confronto tra i sessi e la repressione sessuale nell’Iran islamico, l’idea di spiritualità e di fede, la nozione primaria di libertà.

Possessed (2001) fa parte delle sperimentazioni filmiche di Neshat degli ultimi anni (tra le quali vanno ricordati anche Pulse e Passage, non presenti in esposizione), incentrate in prevalenza su questioni esistenziali e filosofiche. Nello specifico, quest’opera ruota intorno al concetto di pazzia. Riportando in qualche modo al passo di Fervor in cui un evangelista arringa le folle, qui la protagonista passa da una condizione di abbandono alla digressione fantastica ad una di intensa animosità dovuta al confinamento e allo scontro con la realtà.

Paradossalmente, si scopre che la follia può fungere da schermo protettivo, così come accade per il chador (si pensi a The Shadow under the Web, 1997), che nasconde allo sguardo – difatti – ma al contempo isola e dunque difende. Diversità ed emarginazione, tutto sommato, sembrano consentire una condizione di libertà altrimenti inconquistabile dalle donne arabe. Come racconta Shoja Azari, infatti, “circondata dalla folla la donna impazzita si chiude in sé stessa cedendo alle proprie fantasie private. In tutte le culture, la pazzia rappresenta una frattura nella costruzione di un ordine sociale. E’ l’arrivo del caos […], un atto di volontà, la decisione di distanziarsi dalla norma” (da Contemporanee, Postemedia Srl, 2002).

Lo squilibrio porta all’isolamento, è palese, e questo può diventare una protezione, una garanzia di integrità. Non toccarmi! sembra voler urlare quel corpo che si muove inquieto sullo schermo, non avvicinarti!

Non Toccare la Donna Bianca 2.3Se gli scenari proposti da Neshat sono del tutto reali, lo stesso non si può dire per le creazioni di Nobuko Tsuchiya (Yokohama, Giappone, 1972), una tra le artiste più giovani insieme a Assael, Gil, Helfman, Kostova e Shabazi.

Le sue sono installazioni elaborate, nate dall’assemblaggio di oggetti misteriosi, formate da sculture legate tra loro da una logica assai rigorosa benché difficilmente indovinabile, lavori che implicano un lun
go tempo di gestazione creativa come vuole la tradizione nipponica.

Elementi di un racconto fiabesco dall’aspetto vagamente scientifico, riportano a bizzarri tavoli da laboratorio, di un laboratorio alchemico fra le nuvole. Vi si ritrovano tracciati della memoria e trame del fantastico, oggetti dalle pareti cristallizzate, quasi zuccherine, accessori e componenti fragili, circuiti – dal delicato equilibrio – ribollenti di vibrazioni. Si tratta di macchine fantascientifiche o materializzate direttamente da una visione onirica, a conti fatti non così improbabili, pericolose solo in apparenza.

Esposte in mostra, le sue ultime opere (Jellyfish Principle e Micro Energy Retro, entrambe del 2004) invitano ad abbandonarsi ad una spedizione immaginaria per i mari. Lo spettatore diviene così una sorta di Pinocchio del XXI secolo che anziché viaggiare nel ventre di una balena, lo fa all’interno di una medusa. Secondo Tsuchiya, appunto, il temibile celenterato tramutato in sottomarino organico – in quanto leggero e trasparente – sarebbe un mezzo di trasporto ben più adatto rispetto al cetaceo collodiano.

La donna bianca non si tocca!

Le seduzioni della carnalità

Ove non specificato diversamente, le citazioni presenti in questo articolo sono state tratte dalla pubblicazione Non toccare la donna bianca, 2004, Hopefulmonster Editore.

di Sonia Gallesio