Cuore di mamma

Giugno 22, 2007 in Libri da Stefano Mola

Titolo: Cuore di mamma
Autore: Rosanna Matteucci
Casa editrice: Adelphi
Prezzo: € 9,00
Pagine: 136

Cuore di mammaCuore di mamma, con cui Rosa Matteucci è finalista al Premio Grinzane Cavour 2007 nella sezione narrativa italiana, è un piccolo grande dramma. La cronaca minuziosa dello scontro tra una madre vedova e la figlia. La prima è asserragliata in una casa lasciata alla deriva nel disordine e nella sporcizia, in un piccolo paese della provincia, ipocondriacamente prigioniera dei propri mali, refrattaria a qualunque contatto umano, dedita all’autocommiserazione e alla coltivazione del senso di colpa della figlia. Quest’ultima, separata, sulla trentina, con la speranza che si fa sempre più grigia di trovare una persona con cui condividere la vita, settimanalmente si reca a farle visita cercando di mettere un minimo di ordine e pulizia, come una specie di fatica di Sisifo, con la speranza di far accettare alla madre la presenza di una badante.

Una narrazione che è allo stesso tempo minima e universale. Minima perché gli eventi sono pochi: la sostanza del libro sta per l’appunto nell’esplorazione dei comportamenti, delle opposte ragioni, nel disvelamento progressivo del carico di attese e disillusioni. Universale perché un rapporto familiare, per quanto patologico possa essere, non può non toccarci in qualche modo, anche solo laterale, in misura diretta.

Colpisce, in questo libro di Rosa Matteucci, la qualità della scrittura, l’attenzione per il linguaggio. C’è una cura per la scelta delle parole, per gli accostamenti, un gusto nel portare i singoli termine al limite, come a cercarne una tensione, al di là del banale, dislocandoli leggermente dal loro contesto naturale. Ciò non significa assolutamente che il risultato sia una prosa oscura, o che si abbia (come potrebbe facilmente capitare in questi casi) la sensazione di un fuoco d’artificio fine a se stesso, oppure di qualcosa che si riguarda allo specchio. Mi sembra che per Rosa Matteucci il problema del linguaggio stia in un certo senso nella ricerca della precisione, e che dunque l’attenzione alla scelta delle parole sia funzionale a quel compito necessario e senza fine che è la definizione del nostro stato umano.

Il timbro, nonostante una analiticità a volte impietosa, è comunque grottesco e ironico. Non mi sembra che l’autrice si metta al di fuori e al di sopra dei suoi personaggi. Piuttosto, si immerge in questa materia difficile per cercare di dipanare per quanto possibile tutti gli oscuri meccanismi che presiedono alle interazioni umane. È una prosa che quando scorre sotto gli occhi dà un grande piacere, è come un soffio d’aria fresca, sorprende per le soluzioni, riesce a caratterizzare persone e ambienti con rapida vivacità. In un certo senso, incoraggia, mostra una strada intermedia tra un uso piano della lingua, dove l’usura si fa sentire prestissimo, e un presunto uso alto, dove l’oscurità sembra farla da padrone. Ci fa capire che la lingua non deve mai esser data per scontata, ma neanche esibita.

di Stefano Mola