Cucina del Piemonte

Novembre 13, 2003 in Libri da Gustare da Stefano Mola

Giovanni Goria, “Cucina del Piemonte collinare e vignaiolo”, Franco Muzzio Editore, pp. 269 Euro 14,50

LDG 2003L’astrazione è una dei grandi miracoli della cultura umana. Significa vedere al di là della infinita varietà delle forme e dei comportamenti per sublimarli in concetti che ne riassumano l’essenza in modo da facilitare o addirittura permettere la comunicazione. A pensarci bene, sembra addirittura assurdo. Prendiamo il concetto di sedia per esempio. La sedia non esiste, esistono infinite incarnazioni dell’oggetto, tutte egualmente sedie, eppure tutte diverse per forma colori funzioni procedimenti costruttivi. Eppure, grazie all’invenzione del suo sublimato astratto, possiamo facilmente dire sedia ed essere capiti praticamente da chiunque senza essere costretti a portare disegni o impegnarci in spiegazioni lunghe, complicate e potenzialmente sterili.

Una cosa come fare il brodo, operazione che trasforma e riassume le caratteristiche della verdura o della carne, senza essere verdura o carne. Introduciamo finalmente il cibo visto che questo pezzo parlerà prima o poi di un libro che si cimenta con un compito complesso e gustoso, illustrato programmaticamente fin dal titolo.

Perché se gli astratti sono comodi, proprio per questo sono pericolosi (è ora di finirla con il mito della facilità, grande ambizione dei nostri tempi, scorciatoia falsa e spesso avvelenante, sonnifero della ragione). Così come è facile dire sedia, è altrettanto facile dire extracomunitario. L’astratto può far mucchio, può buttare anche tutto insieme alla rinfusa, confonde sommersi e salvati. La storia o l’esperienza quotidiana ci danno molti esempi. Quanto è facile trovarsi in trincea dopo aver pronunciato le donne sono…?

A maggior ragione quindi è intrigante capire come Giovanni Goria, autore di questo libro, si ponga il problema di descrivere la cucina piemontese. Illuminante e significativo è il suo esordio nella bella prefazione che apre il libro: Scrivere oggi […] una cucina regionale, pare impresa a dir poco ardua, quasi impossibile. Il problema non è soltanto quello di restringere come un brodo la molteplicità di comportamenti, abitudini e gusti quotidiani di un intero territorio, quanto e soprattutto chiedersi se esistano ancora. Viviamo tempi in cui di cucina si parla molto, ma si pratica poco, per molti motivi. Per scarsità di tempo e cambiamenti nelle possibilità di accesso alle materie prime. Per l’indebolimento (e spesso la rottura) di una linea di trasmissione sapienziale diretta e familiare di tecniche e modi di fare. Per un mescolamento sempre maggiore di persone provenienti da ambiti culturali differenti. Non dimentichiamo poi che, per quanto riguarda la ristorazione commerciale, spesso nelle cucine, data la durezza del lavoro, sono presenti uomini e donne che vengono direttamente da altri paesi.

Sia chiaro che in tutto questo non c’è un piagnisteo che loda i bei tempi andati. Il dato di fatto è prendere atto del cambiamento: soprattutto, e conseguentemente, interrogarsi su che significato dare operativamente (cioè imbracciando mestoli e matterelli e quant’altri strumenti mai necessari) a una cucina regionale. Sapendo che adesso quanto si può e si deve compiere è un’operazione culturale a partire da vita, Storia e storie. Perché se un tempo cucinare si poteva configurare come un gesto sapienziale quasi automatico, tipo respirare, artigianale, spesso legato all’interno dei ristretti vincoli della sussistenza (pensiamo al gesto narrato da Fenoglio in “La malora” della polenta sfregata sull’aringa appesa alla ricerca di tracce di gusto nella povertà del pasto quotidiano), adesso non può che trasformarsi in consapevolezza, dubbi, domande ed eventualmente, ricerca e scoperta delle radici di se stessi o del territorio in cui andiamo a vivere.

Qual è dunque la scelta di Goria? Secondo la sua definizione programmatica, cucina regionale è quanto della cucina antica o vecchia è ancora vivo o potrebbe diventarlo perché tuttora valido, accettabile, buono e congeniale[…] tutte le ricette che presentiamo sono vive nel senso che ci provengono da persone (spesso anziane, talvolta di campagna e talaltra di vecchie famiglie tradizionali di bon ton) che ancora le fanno – almeno qualche volta – e con gusto. Tutte comunque […] hanno un preciso riscontro o scritto […] o almeno nella sicura memoria di certe persone. I piatti […] non sono certamente tutti quelli del vecchio piemonte […] ma sono di sicuro veri, cioè proprio piemontesi, e di sicuro attuali, cioè fatti e fattibili.

L’impostazione di Goria non è quindi meramente e aridamente accademica, ma orientata alla possibilità del fare, attualizzare e quindi perpetrare una memoria. Perché, al di là delle dichiarazioni programmatiche, che aiutano a capire i criteri necessari a guidare una operazione così complessa e difficile che è ridurre un territorio e la sua storia in un libro di ricette, è importante anche guardare alle intenzioni. A cosa può servire, a chi è indirizzato questo libro? Ancora una volta, lasciamo volentieri la parola all’appassionato autore: che sia utile alle famiglie piemontesi benmangianti, alle cuoche e […] ai cuochi “dilettanti” (quelli o quelle che si divertono!) […] Piatti come si dice “da far bella figura” e insieme rigorosamente piemontesi […] prodotti dalla Storia di questa terra e di questa gente.

Mi piace molto questo accento sul fare, sulla convivialità: parlare di piatti della domenica significa invitare e incitare alla cucina come piacere del fare per condividere, alla festa. Questa può essere la strada per far sì che la tradizione si trasformi in azione e non si mummifichi. La tradizione ha un senso soltanto se si incarna nell’agire quotidiano, altrimenti resta un paravento vuoto.

Infine, per quanto concerne la presentazione delle ricette, Goria sceglie un approccio non strettamente tecnico, ma piuttosto narrativo. Non mancano ovviamente dosi e descrizioni dettagliate, ma accanto a queste filtrano poco a poco racconti, aneddoti, piccole briciole di storia. Perché raccontare una cucina significa anche e necessariamente raccontare la civiltà di una regione, con le sue vicissitudini, le trasformazioni politiche, le peculiarità, il carattere. Insomma, un libro da non soltanto da consultare, ma da consumare, da sfogliare ma anche da macchiare, piegare, da farci le orecchie, da aggiungere commenti, da tenere accanto all’olio e al sale.

di Stefano Mola