Cervino Film Festival

Luglio 28, 2003 in Spettacoli da Redazione

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La sesta edizione del Cervino Film Festival si è conclusa con il successo del lungometraggio giapponese Alexei to izumi di Seiichi Motohashi. La giuria – composta da Vittoria Castagneto, Paola Virginia Gigliotti, Paola Olivetti, Paola Peila e Ingrid Runggaldier – ha deliberato di assegnare il premio da 2000 euro al film nipponico per “il ritmo semplice ma non banale con cui, adoperando il linguaggio del documentario, propone uno sguardo nuovo nella vita arcaica di una comunità minata nelle sue radici”. L’opera di Seiichi parla della grande tragedia ecologica di Chernobyl e focalizza la propria attenzione sul paese di Budische contaminato dalle irradiazioni. Ma nel paese abbandonato dalla maggior parte degli abitanti qualcosa rimane a dare speranza a coloro che restano: da una sorgente al centro del villaggio continua a fuoriuscire acqua pura e incontaminata, senza tracce di radioattività.

35312Shackleton è stato sicuramente il grande evento del festival. Gli organizzatori hanno deciso – saggiamente – di proporre i 206 minuti del film – nato per la televisione – in due parti. Sostenuta dalla regia di una vecchia volpe dei tv movie come Charles Sturridge e dal talento attorale di Kenneth Branagh, la pellicola ripercorre le vicende dell’equipaggio della nave Endurance bloccato nei ghiacci del Polo Sud e condotto in salvo dal proprio capitano Ernest Shackleton. Il film è rigoroso, la messa in scena è molto british. Nonostante tutte le problematiche emerse durante la fase di preparazione del film – documentate con scrupolo in “Shackleton: breaking the ice” – non ci sono lacune, né sbavature. La lunghezza non deve ingannare, il ritmo è veloce, la retorica ridotta all’osso. Sembra un vecchio film d’avventura girato coi mezzi del XXI° secolo. Se in Italia i dati auditel santificano commesse e medici in famiglia, incantesimi e posti al sole girati tutti in interni, a un film tv del genere bisognerebbe fare un monumento.

Il premio per la categoria documentari è invece andato a Les naufrages du Mont Blanc di Denis Ducroz. Il mediometraggio di Ducroz ripercorre la vicenda dei due alpinisti che nel dicembre del 1956 decisero di scalare la Brenva in inverno rimanendo bloccati a 4000 metri per dieci giorni. Fra interviste attuali, filmati d’epoca e una scrupolosa ricostruzione dei fatti il regista francese crea un ibrido senza una propria identità, ma che ha convinto la giuria per “la capacità di esprimere efficacemente le emozioni dei protagonisti di allora offrendo spunti di riflessione tutt’ora attuali”.

Hire Himalaya del basco Alberto Inurrategi (1° per la categoria Gran Premi) è sicuramente il documentario più bello visto al Cervino Film Festival. Il film è un appassionato e poetico omaggio al fratello Felix ed esprime una serie di riflessioni, di interrogativi, introspezioni e profondo dolore susseguenti al vuoto procurato dalla sua scomparsa avvenuta dopo il terribile incidente occorso a Felix durante la discesa del Gasherbrum. Ad affascinare, oltre alla oggettiva bellezza delle immagini, è il ritmo, la calibrata cadenza del montaggio. Alla registrazione filmata (e molto spesso volutamente intermittente) delle imprese alpinistiche dei due fratelli viene affiancato un repertorio fotografico di rara bellezza: intensi primi piani di bambini, donne, uomini e vecchi tibetani che non sfigurerebbero nel portfolio di un grande fotografo.

In mezzo a tanta montagna, un po’ di colline se le sono portate appresso Stefano Della Casa e Stefano Mordini, ideatore e regista di Questo sceneggiato s’ha da fare, un divertente sopralluogo nel Parco delle Capanne di Marcarolo dove, nel 1967, vennero girati gli esterni dei “Promessi sposi” di Sandro Bolchi interpretati da Paola Pitagora e Nino Castelnuovo.

35317Non la vogliono capire… Cerro Torre di Christoph Frutiger, Christine Kopp e Thomas Ulrich non è soltanto un film sulla montagna, non è solamente la registrazione della sfida di quattro alpinisti alla via Maestri-Egger del Cerro Torre. E’ una storia di più ampio respiro sull’amicizia, sulla gioia di vivere, sulla natura, ma, anche e soprattutto, è la storia di uomini che hanno saputo riconoscere i propri limiti, uomini che hanno saputo fermarsi in tempo prima che accadesse l’irreparabile. I quattro alpinisti svizzeri partiti insieme a Casimiro Ferrari decidono, nel luglio di due anni fa, di affrontare la scalata del Cerro Torre, una forbice di pietra nel cuore della Patagonia. Il viaggio è lungo, costellato di imprevisti. I pick up rimangono bloccati dalla neve e Ferrari è costretto a rientrare in Italia, minato da una malattia che non gli darà scampo. Il gruppo prosegue e raggiunge il campo base ai piedi del Cerro Torre. Si parte all’attacco del muro di pietra. E’ inverno, ma la giornata è bella, troppo bella. Tutto procede per il meglio quando, ad un certo punto, del ghiaccio si stacca franando a valle. Gli alpinisti sono salvi, ma memori di quanto accadde a Toni Egger (morto durante la discesa dopo aver aperto la via con Maestri) decidono di fermarsi e di tornare indietro. Giunti al campo base basta una partita di hockey per esorcizzare il fallimento. Come dice la frase scelta per l’epilogo del film “il più grande alpinista del mondo è quello che si diverte di più”. Thomas Ulrich e i suoi compagni hanno saputo fare loro questa verità e potranno compiere altre scalate, su altre vette.

“Non la vogliono capire… Cerro Torre” è il frammento di frase di Cesarino Fava, un monito a diffidare di una montagna infida e assassina. Lo stesso Cesare Maestri facendo un bilancio della propria esistenza lascia un testamento di lucido vigore ai posteri: “Sono soddisfatto, ho avuto una vita intensa fatta di gioia, ma anche di dolore. Non ho rimpianti, ma se c’è qualcosa che non rifarei è sicuramente la scalata al Cerro Torre”. In un mondo di performance esasperate, anche a rischio della stessa vita, è bello ritrovare un così lucido inno alla gioia di vivere proprio da parte di chi, nella vita, ama sopra ogni altra cosa trovarsi in cima ad una vetta.

di Davide Mazzocco